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Un Natale “fuori famiglia”

Mohamed scende correndo giù dalla scala. Arrivato in fondo, ha un sussulto, mi trova parato davanti a lui. Ci guardiamo. Scruta nei miei occhi col dubbio che, nonostante questo sia un giorno di festa, io lo possa riprendere come succede in tutti gli altri giorni dell’anno, per le sue corse scapestrate dal piano di sopra. Sorride, capisce che gli è andata bene. “Buon Natale” gli dico. Sorride nuovamente, annuisce e forse un po’ imbarazzato da quest’augurio così nuovo per lui abbassa gli occhi e procede verso la fine del corridoio, fino a sparire dalla mia vista entrando in salotto. Vado in cucina a controllare la preparazione del pranzo ma di me non c’è bisogno, è già tutto sotto la gestione attenta della collega con cui condivido questo turno di festa. Raggiungo Mohamed ed il resto dei ragazzi in salotto. Sono tutti qua i superstiti del Natale. Difatti, chi ha la famiglia vicina solitamente la raggiunge per la giornata, ed è facile che qui rimanga più che altro chi viene da paesi lontani, quasi tutti di religione musulmana.

I ragazzi non si accorgono di me, rapiti dallo schermo luminoso che tengono in mano, tutti a battere coi polpastrelli un suono quasi impercettibile, un ritmo tribale in onore di chissà quale dio tecnologico che in questo momento sembrano adorare. Il Natale qui è anche questo, momenti di quotidianità rotti però da un’atmosfera diversa, speciale. Forse per le luci intermittenti accese oramai da un paio di settimane che finalmente trovano un senso, anche se non troppo chiaro, forse perché gli educatori in turno appaiono un po’ diversi, dotati di una gioia bonus che probabilmente ancora non riescono a comprendere. Anche per il loro aspetto, l’educatrice si è truccata un po’ più del solito e l’educatore si è fatto la barba, magari si sarebbe anche pettinato se avesse avuto ancora qualche capello. Sta di fatto che anche io, che ho almeno il doppio delle primavere di questi ragazzi, una spiegazione non ce l’ho. Uno ad uno li sveglio tutti dalla loro trance tecnologia con domande di rito, chiedendo cosa avessero fatto il giorno prima e cosa gli piacerebbe fare oggi pomeriggio.

La voce della mia collega ci avverte che il pranzo è in tavola, pronto per essere mangiato. Il cellulare è presto riposto e tutti corrono verso la sala da pranzo. Mi sfrecciano a fianco uno dopo l’altro tranne Mohamed che rimane seduto. Gli faccio cenno con la testa come per chiedergli “Andiamo?”. Annuisce, si alza e quando mi raggiunge mi sussurra: “Buon Natale”. Sorride, ancora imbarazzato ma compiaciuto e raggiunge il resto dei ragazzi in sala da pranzo.

Sorrido anch’io e ho il sospetto che il Natale sia scritto in queste cose, nell’augurio imbarazzato di un ragazzino che il Natale ancora non sa cosa vuol dire.

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