Oggi intervistiamo Moahmed Solemay, ragazzo egiziano ospite di Casa Clementini dal 2010 al 2013.
Ciao Ahmed! Raccontaci un po’ il tuo arrivo in Italia e com’è iniziato il tuo percorso alla Fondazione…
Sono partito dall’Egitto nel 2010 insieme a mio fratello più piccolo.
Siamo stati circa un mese in un centro accoglienza a Lampedusa dove ho iniziato a studiare l’italiano e mi sono trovato molto bene. Dopo ci siamo trasferiti a Rimini ed io siamo andati a vivere a Casa Clementini.
Mio fratello è stato iscritto alle scuole medie, mentre io al Centro Zavatta ed ho svolto anche lavori di giardinaggio. Ho fatto un percorso di studio/ lavoro che mi ha fatto crescere molto.
Che cosa hai imparato dalla tua esperienza in Comunità?
Ho imparato tantissimo! Mi ricordo molto bene i discorsi che faceva Roberto (il coordinatore delle comunità educative) che diceva che nel mondo fuori non ci sarebbe stata una persona che ci avrebbe detto cos’è giusto o sbagliato. Mi ha fatto capire (e uscendo dalla Comunità ne ho avuto conferma) che nel mondo moderno non serve la forza, ma bisogna solo usare la testa e cercare di superare le paure che abbiamo dentro di noi.
Ho cercato sempre di frequentare persone per bene ed educate ed ho imparato a comportarmi come loro.
Se mi guardo indietro penso che sono fortunato perché anche se non ho avuto una famiglia che mi ha potuto supportare finanziariamente, quello che sto creando è tutto merito dei miei sforzi e sacrifici.
Dopo essere uscito da Casa Clementini che cosa hai fatto?
Dopo qualche mese sono stato assunto in un’azienda di infissi ed ho avuto un contratto a tempo indeterminato. Ma nel 2016 mi hanno licenziato per via della crisi. Dopo un mese ho trovato lavoro come cameriere e sono così entrato in un campo nuovo per me. Ho trovato una famiglia che aveva preso in gestione un ristorante da poco, mi hanno accolto come un figlio e mi hanno fatto un contratto a tempo indeterminato.
Ho un appartamento nella zona di Marina Cento, cerco di frequentare sempre le persone giuste e prenderle come esempio.
Io credo che la felicità stia dentro di noi… se noi vogliamo essere felici lo saremo!
Che cosa vorresti dire ai ragazzi che hanno fatto un’esperienza simile alla tua?
Mi ricordo le parole di un mediatore che ho conosciuto quando sono arrivato in Italia: “Se hai voglia di fare qualcosa, anche scalare una montagna, l’unica soluzione nella vita è avere tanta pazienza”.
Quindi dico ai ragazzi come me che se hanno voglia di fare qualcosa, di raggiungere degli obiettivi nella vita, devono cercare di avere pazienza e calma, di non frequentare le compagnie pericolose e buttare all’aria il lavoro fatto in comunità, perché stare con le persone sporche sporca anche te stesso.
Io sono davvero grato alla Fondazione San Giuseppe, a Roberto, alla mia assistente sociale e a tutti coloro che mi hanno dato una mano e che mi hanno insegnato le regole per vivere in questa società.
C’è qualcos’altro che vorresti aggiungere?
Prima di giudicare una persona bisogna cercare di comprendere la sua situazione e il suo punto di vista. Non giudicarla senza prima conoscerla e, soprattutto, siamo tutti esseri umani uguali, non c’è nessuno superiore ad un altro.
Io credo che far fare un percorso ad un ragazzo fino a 18 anni, dargli un’opportunità educativa o lavorativa sia molto bello… ma se dopo la maggiore età il percorso si interrompe, tutto questo investimento non ha senso!
Sono circa 30mila i minorenni “fuori famiglia” in Italia. La maggior parte sono bambini nati in famiglie con gravi difficoltà personali, sociali, economiche. Le comunità di accoglienza e le famiglie affidatarie, spesso, diventano l’unica soluzione per dare una possibilità ai ragazzi di costruirsi un futuro. Ma fino al diciottesimo anno d’età. Ci sono alcune migliaia di ragazzi neomaggiorenni ogni anno che non è possibile fare rientrare a casa perché hanno alle spalle situazioni terribili ed è difficile avviarli ad una vita autonoma esattamente al compimento dei 18 anni. Per questo è necessario agire al più presto con un intervento mirato.