Vi presentiamo l’intervista all’ ex educatrice D. P. che ha lavorato 18 anni all’Istituto (oggi Fondazione) San Giuseppe. Ecco che cosa ci ha raccontato…
Nel corso del suo lavoro al San Giuseppe lei è stata testimone di importanti cambiamenti nella figura dell’educatore. Qual è secondo lei il principale cambiamento avvenuto nel lavoro dell’educatore di una comunità residenziale per minori?
Dovrei esprimere un giudizio su un percorso generico, non personale, quando invece secondo me il percorso dell’educatore è personale. È vero che essendo stata qui dal 1985 per 18 anni, ho partecipato a molti cambiamenti sia di gestione che di “filosofia di intervento” sui minori, però parallelamente non si può prescindere dal percorso individuale dell’educatore. Questo lavoro solitamente si inizia quando si è ancora molto giovani ma poi, crescendo, ritengo si debba fare un lavoro parallelo su di sé, secondo me indispensabile! Dovrebbero farlo tutti, io lo feci. Innanzitutto perché non fai questo lavoro per caso, mai! Inoltre perché tu cambi nel corso degli anni nelle relazioni con i minori, ed è bene che sia così, impari a conoscerti di più e sei sempre più obiettivo, per quanto l’istinto e la relazione empatica siano comunque sempre alla base.
In 18 anni non è solo mutata l’organizzazione del San Giuseppe, ma si è trasformato anche il mondo fuori.
È inevitabile che la relazione educatore/minore sia sempre in evoluzione; chi non si mette in quest’ottica difficilmente può resistere a lungo a in questa professione, o comunque, secondo me, non la può svolgere con consapevolezza, perché non può individuare con un caldo distacco il bene del minore.
La responsabilità che si ha in questo lavoro è altissima: la sensibilità e l’attenzione che si devono avere costantemente nell’entrare nella vita di un minore, la cui esistenza è anche partita in salita, sono totali.
Ha avuto esperienza di lavoro nelle scuole?
Si, come insegnante e ho avuto anche esperienza con gli educatori, essendo oggi una maestra.
La sua esperienza lavorativa al San Giuseppe le è stata d’aiuto nella scuola?
L’esperienza al San Giuseppe mi è servita nella vita!
Nella scuola, sicuramente. Devo dire che per un po’ di anni ho fatto fatica a trovare la dimensione prettamente dell’insegnante che deve portare avanti un programma didattico e fare le verifiche, mentre il mio istinto era l’approccio relazionale. Però questo ha arricchito tanto il mio lavoro.
Lei ha maturato esperienza nei gruppi appartamento gestiti secondo l’approccio tradizionale e anche con quello innovativo terapeutico. Che cosa ne pensa di questi diversi approcci?
Sicuramente non ci può essere una conduzione o una visione del lavoro statico. Al di là del fatto che c’è stata una successione di gestioni con una prospettiva diversa, saremmo dovuti cambiare anche se fossimo rimasti nel tradizionale.
Nel modello tradizionale era richiesta meno professionalità, c’era una gestione un po’ del “padre di famiglia” che accoglieva i bambini bisognosi.
Nel periodo in cui degli esperti ci hanno indirizzato verso un impianto prettamente terapeutico, abbiamo fatto delle formazioni con loro secondo l’impostazione lakaniana. Poteva sembrare una rivoluzione copernicana ma con il senno di poi mi rendo conto che, pur essendosi aperte prospettive diverse, nella relazione con il minore che hai davanti nessuno può prescindere da se stesso, quindi ripeto, ciò che credo veramente imprescindibile è che ciascun educatore faccia un lavoro su sé stesso, con molta lealtà. Ovviamente è indispensabile un indirizzo chiaro condiviso, però poi tu devi capire te stesso per poter capire gli altri, essere consapevole di cosa ti risuona dentro di quel minore e di quella storia.
Quali sono state le maggiori difficoltà del suo lavoro?
All’inizio l’età, perché ho cominciato che non avevo ancora 22 anni e nel gruppo femminile c’erano delle ragazze di 17/18 anni. Mi sono ritrovata a dover gestire situazioni rispetto alle quali solo qualche mese prima io ero dall’altra parte.
A volte mi sono trovata in difficoltà anche con qualche collega che avevi la sensazione non fosse tanto centrata. Certamente ci saranno stati colleghi che hanno avuto questo stesso sentimento nei miei confronti…
Ma per fortuna ogni volta che c’era un problema si andava da Maurizio che era sempre disponibile, sempre sempre sempre, per i minori, per noi, per quello che accadeva. E questo “appoggio” costante ha aiutato moltissimo, perché altrimenti molte persone sarebbero saltate.
Una difficoltà che io sentivo intensamente era ogni volta che c’era un nuovo inserimento, Maurizio la chiamava “la crisi d’inserimento” (in realtà lui si riferiva ai momenti di crisi del minore nel primo mesetto del percorso in struttura). Io questa “crisi” la sentivo anche dentro di me: tutte le volte c’era questa mia forte ansia nell’accogliere una persona che non conoscevo per niente, con la quale, ovviamente, non potevo ancora avere un linguaggio comune e temevo di non essere in grado di riuscire a capirla.
Qual è la maggiore soddisfazione che ha ricevuto dal lavoro che ha svolto?
Devo dire che, ancora col suggerimento di Maurizio, ho sempre lavorato con la convinzione che fosse corretto non avere aspettative, fare tutto il possibile a tutela dei minori, tutto ciò che gli adulti sono tenuti a fare, anche se alcune scelte possono non apparire la cosa migliore in quel momento, ma senza aspettarsi nessuna gratificazione.
Maurizio diceva spesso che il grosso peso dell’educatore è proprio quello di non poter ricevere gratificazioni dal proprio lavoro, perché c’è questa relazione affettiva apparentemente “ambigua” in cui il ragazzo ad un certo punto ti si lega moltissimo ed allo stesso tempo tu non lo puoi illudere, perché non diventerai la sua famiglia, contemporaneamente però non ti puoi neanche sottrarre. Questo è un frangente molto delicato da gestire, è una continua ricerca della “misura”.
Sono cresciuta professionalmente con questa consapevolezza che non era giusto aspettarsi la gratificazione. In realtà poi le gratificazioni sono arrivate: quando tu sai a distanza di tempo che quel ragazzo o quella ragazza ha trovato la propria strada ed è riuscito a trovare un modo per esprimere sé stesso nella vita, senti che noi educatori, tutti insieme, abbiamo contribuito a dargli una chance.
Ha mantenuto rapporti con gli ex colleghi o con i ragazzi?
Si, con entrambi. C’è ad esempio una ragazza con cui sono rimasta in contatto e adesso sta facendo il giro del mondo in bicicletta, mi ha fatto piacere che si ricordasse ancora che io sono vegetariana, adesso lo è anche lei.
Ha mantenuto rapporti con il mondo dell’assistenza?
Mi sono trovata proprio dall’altra parte, a causa di un problema di mio figlio.
Nel mondo dell’assistenza ho conosciuto persone splendide ed altre che, se non fossi stata io forte di tutta questa esperienza, ci avrebbero disintegrato. Io avevo le spalle forti, perché altrimenti è un mondo veramente difficile, dove loro comunque hanno sempre ragione.
Io ho fatto questa riflessione: in qualche modo avevo aderito, durante la mia esperienza lavorativa, al fatto di “giudicare” i genitori, nonostante ancora non avessi figli e non potessi rendermi conto di tante cose. Me ne sono resa conto quando sono stata io quella ad essere giudicata, in ogni episodio: “lei cosa ha detto?”; “lei cosa ha risposto?”; “lei cosa ha fatto?” E su ogni mia risposta è stato creato un castello di interpretazioni che non corrispondevano spesso a ciò che era accaduto, o alla madre che ero realmente, o a quello che io provavo.
E allora ho pensato: “chissà quante volte abbiamo giudicato con leggerezza e superficialità, adesso toccava a me!”
Le va di raccontarci un aneddoto o un bel ricordo che ha dell’esperienza alla Fondazione?
Qualche tempo fa sono stata al battesimo del figlio di una ragazza che è stata insieme a suo fratello in Comunità. Chiacchierando ci siamo ricordati che alle elementari il fratello doveva scrivere un testo dove parlava di un animale domestico che aveva, e lui descrisse un topo che girava per casa e cacciavamo!
Oppure mi ricordo di quando andai a prendere delle ragazzine che erano scappate a Bologna e io le misi in punizione nel bagno del treno, perché non avevamo i soldi per il biglietto. 🙂